- Autore: Roberto Fustini
- Data: 2018
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Nella cruda magia di quell’ambiente che è la montagna, l’uomo incontra la natura, esperisce uno scenario che ospita forze dalle origini molteplici. Di fronte a lui c’è un passato col quale fare i conti, intorno a sé qualcosa con cui ha la necessità di trovare un equilibrio. Scopre di avere potenzialità di cui non era consapevole, che decide di usare nel bene e nel male, per creare armonia o per stabilire il proprio dominio schiacciando i suoi simili. Il modo in cui deciderà di agire indirizzerà il suo destino.
Circondato dalla natura, dal passato, dal terreno e dall’ultraterreno, dal terrestre e dall’extraterrestre, dalle energie che in tutto questo si sprigionano, egli va ad intessere rapporti che sfiorano il blasfemo, e alla fine definisce la propria essenza. L’uomo è causa ed effetto, prodotto o deus ex machina, perché, in fondo, al centro c’è sempre lui: l’uomo.
Dal racconto ‘Evelin’:
Giunse il pieno dell’estate, ovvero l’inizio della sua fine. Il caldo infuocato d’agosto tendeva l’aria. La stasi che durava ormai da settimane era attraversata da una vibrazione la cui origine era impossibile da definire. Fosse una disposizione che nasceva dall’interno o la reazione a una nuova, diversa pressione da fuori.
I calabroni rollavano nell’afa. Le cicale nei prati schioccavano le ali, frinivano rumorose.
Evelin era chiusa nella sua stanza, le persiane serrate, i vetri spalancati. Le tende erano una barriera nei confronti del calore che tentava di penetrare la sua fortezza. La ragazza aspirava un’inesistente frescura, mentre fili di sudore le disegnavano le linee del viso.
La pancia era gonfia, era larga e pesante. Dentro sentiva movimenti sempre meno controllati, da ormai due giorni. Sapeva che era giunto il momento. Apposta si era allontanata da tutti.
Le pendici che ospitavano Cuspide nuova erano spazzate dallo scirocco in una rincorsa che aumentava il ritmo. Le folate scendevano asciutte, bollenti, le rapide di un fiume che si riversava su Cuspide vecchia e, di lì, a cascata, nella valle sottostante.
La tempesta andò prendendo forma e vigore nel giro di poche ore. Al rumore di sottofondo degli insetti si sostituì il vento, ansimante come un vecchio asmatico. I marosi di calura si scontrarono con il poggio di roccia di Cuspide vecchia, lo avvolsero come le onde sugli scogli e si innalzarono in lingue traslucide, abbaglianti. Era un fuoco che divampava, che poi tendeva a tornare sui propri passi aggredendo il declivio e il borgo nuovo.
Nessuno l’aveva incontrata, in quegli ultimi mesi. Nemmeno i lavoranti della tenuta. Solo il padre e la madre, ai quali era stata comunque concessa una frequentazione inferiore rispetto a quanto erano abituati. Evelin chiedeva il cibo e poche cure, nulla di più. Per il resto era del tutto autosufficiente.
Quel giorno non rispondeva nemmeno alle richieste preoccupate dei genitori. Loro non smettevano di pensare a tutte quelle creature che di recente erano nate morte, animali e anche esseri umani. Alcune gestanti non erano nemmeno giunte nel pieno dell’incubazione.
Lei, però, aveva tutto ciò che le occorreva, chiunque altro sarebbe stato un intruso in quella bolla di intimità selvaggia.
Gli unici spettatori che videro spuntare la testolina della creatura, la madre darsi da fare per ripulirla e sistemare il cordone ombelicale, erano quelle ombre strette tra le tende e la finestra. Il profilo di quelle lunghe orecchie tremolanti, le luci nere di quegli sguardi affossati in un reverente silenzio.
Lo scricchiolio della pelle sudata, tesa, il gocciolare denso, cadenzato, degli umori a terra – la stanza semibuia si popolò di mugolii, di sospiri affannati e infine del vagito di qualcuno che stendeva le braccia, apriva le dita e gonfiava il minuscolo petto.
Da fuori si udì gracchiare un richiamo, parole incomprensibili ma venate di implacabile decisione. Le cornacchie volavano come stracci nel cielo sporco.
Poco più tardi la tempesta di calore si placò. Il delicato adagiarsi del crepuscolo favoriva la distensione nel sottobosco, la quiete nell’intero mondo animale. I grilli presero a cantare ristabilendo la pace, corroborante pur nella sua transitorietà.