- Autore: Roberto Fustini
- Data: 2017
- Compralo qui:
→ help.youcanprint.it
→ youcanprint.it
La montagna è il luogo fisico in cui la natura si lascia andare, si scatena ed espira tutta la sua energia primordiale, in una maniera che quasi in nessun altro luogo le è permessa. Accoglie l’incontro di forze e di magnetismi che sembrano favorire finanche l’esistenza di creature fantastiche, intrecci surreali, figli e madri del nostro mondo onirico. Un territorio dove tutto è possibile, se ci si lascia risucchiare da atmosfere più antiche e vere, dense di sapori di una nudità quasi sciamanica.
La montagna è anche dunque lo spazio psicologico ed emozionale dove una parte di noi stessi si rifiuta di andare, dove in alternativa ama penetrare e lasciarsi irretire, ma anche un terreno di battaglie feroci dalle quali si può uscire vittoriosi o sconfitti.
È il mistero, che si può ignorare restando lontani. È una zona di semi oscurità da cui è difficile non essere tentati. Quello che vi può essere oltre, non ci è dato saperlo finché non avremo compiuto l’impresa. Ma non importa cosa troveremo – orrore, meraviglia o vuoto – perché sarà l’impresa stessa ad averci tenuti vivi e pulsanti.
Dal racconto ‘Gli elfi’:
Non ricordava con esattezza quando i primi drappelli di quegli strani individui avevano fatto la loro comparsa da quelle parti, scendendo dai sentieri più impervi e avventurandosi in mezzo alla gente. Rammentava bene, invece, l’immediata sensazione che il loro arrivo avesse portato un profumo diverso, nell’aria.
Erano guardati con sospetto, mentre organizzavano piccoli accampamenti nelle radure e vicino al ruscello, nei pressi di grotte naturali che, numerose, si trovavano su quelle montagne. Ci si domandava, in paese, chi fossero e da dove arrivassero, senza giungere ad alcuna risposta, dato che nessuno era riuscito a scambiare nemmeno poche parole con loro.
Le domande che chiunque si poneva erano più o meno le stesse. Erano italiani? Persone fuori dalla legalità? O facevano forse parte di una tribù di fenomeni da circo? Perché si erano stanziati lì? E in quale modo stavano facendo girare la voce tra gli altri loro compari in arrivo, sempre più numerosi? Sembravano assolutamente privi di mezzi di comunicazione, e anche di altro tipo di attrezzatura che non fossero utensili per lavori manuali.
Fin dai primi avvistamenti insieme alla loro presenza aveva spirato una brezza al limite tra il fiabesco e l’onirico. Da più parti era stato loro affibbiato quel nomignolo, che così bene descriveva la fugace apparizione fra gli alberi di uno di loro, o la scena dei giochi nell’acqua di cui qualcuno di quegli ometti era stato protagonista, nel lago sotto la cascata. Anche dopo i primi contatti con la gente del luogo, quando perlomeno era stato chiarito che la comunicazione con loro non fosse impossibile, il termine ‘elfo’ era stato adottato da tutti. E da loro accettato, senza il minimo fastidio.
Bruno raccolse le mappe e le carte degli appunti che aveva steso su un tavolino pieghevole, e infilò tutto in una tracolla di cuoio. La giornata lavorativa era pressoché terminata, ed era ora di caricare tutto sul fuoristrada. Avrebbe fatto seguito una breve riunione con i ragazzi, in sede, per fare il punto della situazione su quello che era stato fino ad allora svolto.
Tornò con lo sguardo agli elfi, che si assiepavano sotto gli alberi, e osservavano l’operato della squadra di tagliaboschi. C’era una donna, il capo coperto da una specie di foulard legato dietro la nuca, parlottava con chi stava accanto a lei. Un uomo tozzo e muscoloso, un altro apparentemente più giovane, minuto e nervoso. Un terzo dal viso accigliato, serio, e la bocca tirata.
Per quel che aveva capito lui, alcuni di loro avevano abbandonato un tipo di vita ‘normale’ – la famiglia, gli amici e il lavoro – per abbracciare una diversa filosofia. Per poterla applicare nel concreto, a tutto tondo, nella propria esistenza. Si erano dunque uniti a quella comunità, i cui componenti originari non era ben chiaro da dove provenissero. I caratteri somatici, l’accento singolare che contraddistingueva il loro modo di parlare e il carattere schivo, apparentemente ingenuo, che li caratterizzava – la genesi di tutto ciò rimaneva altrettanto oscura.
Non era stato possibile risalire ad alcuna spiegazione. La diffidenza e il distacco erano stati, tuttavia, superati dopo un po’ di tempo, quando gli elfi avevano cominciato ad accettare qualche tipo di interazione. Le loro dimore si erano organizzate, via via, in una specie di villaggio, sperduto fra i boschi. Questo si rivelò un passo avanti verso ciò che non si poteva definire affatto un’integrazione con gli abitanti della valle, ma che di sicuro andava a costituire un punto fermo per la gente, che ora si sentiva perlomeno in grado di dare loro una collocazione sul territorio.
I rapporti con i borghi circostanti si erano arricchiti di alcuni contatti, perlopiù sotto forma di baratti. Gli elfi si dedicavano alla caccia, alla pesca, ma soprattutto alla coltivazione di frutta e verdura. Lavoravano i prodotti che la natura metteva loro a disposizione e si dedicavano ad attività artigianali, i cui prodotti trovavano spesso un riscontro positivo.
Un accordo con chi amministrava l’educazione scolastica dei bambini dell’intera zona aveva poi permesso che i loro figli frequentassero le lezioni regolarmente, insieme ai coetanei indigeni. In fondo non sembrava andare contro le loro idee, il fatto che i più piccoli apprendessero almeno i rudimenti della matematica e della lingua italiana. Inoltre potevano godere del beneficio di una minima assistenza sanitaria almeno per le fasce d’età più basse.
Bruno alzò una mano in segno di saluto verso i gruppetti, ancora semi nascosti nella macchia. Corrugarono la fronte, scoprirono i denti in un sorriso e loro stessi ricambiarono il saluto. Prima incerti, poi più decisi, quasi sguaiati in un entusiasmo infantile, animale. Quella maniera tutta loro di manifestare le emozioni. Ritrosi, dubbiosi, e poi arrendevoli, ingenui ed accoglienti.